Qui il concetto di “slow” non è una scoperta per sfuggire al logorio della vita moderna, ed ha una sua accezione che non è la stessa di “lentezza”. Piuttosto, ritmo del fare, che non ha mai perso la connessione con il pensare. E la scoperta del turista – perché i bellunesi lo sanno da sempre – sarà che questo non è la periferia dell’impero, il villaggio sperduto tra le valli, la conservazione dovuta all’isolamento. Si sono sempre guardati attorno, i bellunesi, e sono stati guardati, eccome.
C’è il Piave che è una strada liquida verso Venezia e la Serenissima che guardava verso l’alto, a quei suoi confini così preziosi.
Sotto l’arco di Porta Rugo, l’ingresso meridionale della città, passò nel 1404 il primo rettore veneziano Antonio Moro.
Un secolo più tardi, nel 1509, ai tempi della Lega di Cambrai, ci passò a cavallo anche l’imperatore Massimiliano, prepotente vicino di casa. Venezia se la riprese, perché questa è terra veneta, e ci costruì il palazzo dei Rettori, che in un paese di montanari è un manifesto di potenza. Ma a chi ci va, piaceranno i pozzi di pietra con i gerani sul bordo, o le finestre gotiche che occhieggiano lungo vie tranquille, o gli scorci discreti di un abitato a misura d’uomo, dove contemporaneamente tutto è a portata di mano ma si confronta con i grandi spazi appena si alza lo sguardo. Ecco dove si annida “l’adorable”. Il quale concetto ne sottintende un altro, e cioè l’apertura agli altri, l’ospitalità.
Belluno vuole accogliere, ha voglia di essere scoperta, di animare quel suo tesoro che è la tranquillità. Qui tutto scorre, come le acque del Piave, e non mancano i brividi: delle acque a volte nervosette, e dei piccoli tesori della città.
Qui anche il vuoto del lockdown è stato diverso, perché Belluno non conosce le folle. Un po’ più vuoto, ecco. Ma sempre con qualche presenza, ovviamente discreta.