C’è un’immagine, in queste di Verona nel suo bozzolo durante la pandemia, che davvero è emblematica: l’anfiteatro dell’Arena con i suoi corsi di gradinate senza nessuno, un ricettacolo vuoto, e l’idea di un abbraccio che non abbraccia nessuno, non fosse che per il colpo di colore in mezzo, un rettangolo rosso che aspetta lo spettacolo ed è un messaggio di speranza. L’Arena per Verona è stata nella sua storia lontana il luogo della vita e della morte, il luogo che inghiottiva e raccoglieva la città, tutta lì dentro vociante e viva, un concentrato di esaltazione. Eliminata per fortuna la morte dagli spettacoli, è rimasta l’esaltazione via via declinata in stupore e passione. Per cui anche in tempo di sospensione, quelle pietre romane sono rimaste intrise delle loro vicende lontane e più vicine, hanno catturato suoni e colori, e aspettano solo di restituirli: veri quando si potrà, altrimenti immaginari per chi l’aria dell’Arena la respira fino in fondo.
L’Arena vuota rimane un nido, ne ha la forma e la funzione, e non è un caso che dentro ci si canti. Vederla vuota aumenta il senso della sua grandezza, non solo fisica, ma concettuale di nucleo della città. La quale città, peraltro, felicemente va oltre. Verona è incrocio di flussi, da tempo immemore. Luogo di arrivo, partenza, passaggi mai terminati, porta per il nord poco conosciuto nei tempi che furono, nuova porta tra est ed ovest nella penisola diventata operosa, la sua cifra è il movimento.